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Un’immagine. Ritrae una donna misteriosa, di cui non vediamo né la testa né i piedi, ma solo il corpo. Ha indosso un vestito a campana giallo, di quelli che troveremmo nelle foto delle nostre nonne da giovani, e un vistoso bracciale d’oro. Potrebbe trattarsi di Doris Day, se non fosse per la motosega che ha in mano; si tratta invece di un’opera della statunitense Kelly Reemtsen. L’artista ha realizzato una serie di lavori che rappresentano fanciulle dal look impeccabilmente glamour, le quali impugnano utensili solitamente associati al maschile (cesoie, piedi di porco, scuri, accette)

Reemtsen ha studiato moda, per poi iniziare a lavorare nelle gallerie d’arte, e questo ha parzialmente modificato il suo percorso professionale. I suoi lavori richiamano chiaramente Wayne Thiebaud, un pittore statunitense considerato vicino alla Pop Art a causa del suo  interesse per gli oggetti che simboleggiavano la cultura di massa. Tra le opere più conosciute, torte, pasticcini, giocattoli, rossetti, che colpiscono l’attenzione del pubblico per i colori esasperati e l’accurata definizione dei giochi di luci ed ombre, un particolare, questo, mutuato dalla comunicazione pubblicitaria. Qualcuno ha giustamente notato che “i dolci di Wayne Thiebaud, potrebbero essere i dessert serviti dalle padrone di casa ritratte da Reemtsen”.

L’artista statunitense ricorre alla tecnica dello sgocciolamento del colore (tratto distintivo della corrente dell’Action Painting), che poi coagula sulla tela formando dei grumi. Le figure femminili occupano uno spazio bianco, a cui tale metodo, all’insegna della densità cromatica, conferisce un aspetto satinato. Così, come le donne di Reemtsen si sono appropriate, senza troppe cerimonie, di oggetti generalmente utilizzati dall’uomo, lei ha “violato” un territorio, come quello dell’Espressionismo Astratto, precedentemente considerato dominio indiscusso di artisti di sesso maschile dalla vita particolarmente turbolenta.

Reemtsen scova gli abiti indossati dalle sue “eroine” in negozi vintage, che setaccia meticolosamente, alla ricerca di linee e colori che catturino la sua attenzione. La scelta di ritrarre donne dal look anni Cinquanta e Sessanta non è determinata dall’esigenza di rievocare quel periodo storico, bensì dall’estetica che quel genere di vestiti regala alla silhouette femminile. “I’m really attracted to the volume of the skirt. I’m tried slimmer dresses and they’re pretty but they don’t have the same effect. I love to put the crinoline under the dress and get it really big and then cinch the waist.” Tra l’altro, la faccenda del colore è una specie di chiodo fisso per l’artista statunitense (“I love color, I think about it all the time!”), che predilige il celeste, le tonalità di rosa, arancione e di verde chiaro.

 

Non è casuale che Reemtsen non mostri il volto di queste donne. “La loro identità è ciò che indossano”, e quindi, risiede anche nel coraggioso, a tratti provocatorio, connubio tra un abbigliamento estremamente femminile e ricercato, ed “accessori” generalmente ricondotti al maschile. “I want the women with heavy equipment to reflect this notion of ‘I’m so exhausted but I have to get everything done and I WILL get it done.’ There is this expectation put on women that they have to do a good job and they have to look good”, così spiega Reemtsen come nasce l’esigenza di rappresentare questo connubio.  “I paint those women as girly, not as housewives. I don’t even see them as married. I see them as me, a single girl getting things done. Not all of us are married or want to be married. There is this expectation of women – that we all are, or want to be, housewives and these poor paintings have been put in that box.”

Le opera di Reemtsen sono accompagnate da didascalie talvolta volutamente ambigue nell’interpretazione; sotto l’eleganza lussuosa scorre un rivolo tenace di humor nero. “Mi occupo di tutto per te”, promette/minaccia una donna vestita di tutto punto che, munita di aspirapolvere, si prepara ad entrare in casa del fortunato/malcapitato. “Un appuntamento serale” attende invece una fanciulla che ingentilisce l’abito a pois con anello, bracciale e… una scure. Un’altra, fasciata da un abito arancione vitaminico, porta con sé un lunghissimo tubo per annaffiare il giardino; la immaginiamo, raggiante, mentre dice  “l’erba è sempre più verde”.

Qualcuna invece cade, perché ha “fallito ad impegnarsi”. E’ la conclusione che ha scelto Reemtsen per questo ciclo di opere. “Women have so many responsibilities and they have to look pretty all the time and they just get pushed to the edge.  Then what?  I decided to show them falling gracefully. A lot of us fall but that doesn’t mean we die. There is a lot to be said about falling and getting back up.”

 

L’ironia ed il rovesciamento paradossale sono spesso la chiave più convincente per affrontare questioni che coinvolgono profondamente il modo in cui le persone entrano in rapporto. D’altra parte le donne sono state oggetto per un lunghissimo periodo di una segregazione odiosa e umiliante al pari a quelle connesse alla razza ed alle preferenze sessuali. Per questo, è un altro, l’aspetto su cui ho delle perplessità. Non come Reemtsen comunica, ma cosa comunica, il messaggio che sceglie di veicolare a proposito delle discriminazioni di genere. E’ del tutto evidente già dalle parole che usa per spiegare il suo lavoro, che pone la questione in termini di sfida. Come se si trattasse di una sorta di gara che vede contrapposti uomini e donne, impegnati a dimostrare chi è più bravo, chi sa cavarsela meglio ostentando un’indifferenza nei confronti dell’altro sesso, che sconfina quasi nel disprezzo. Da donna mi chiedo e chiedo: siamo convinte sul serio che sfidare l’uomo a braccio di ferro – e non  necessariamente solo a livello metaforico – ci regalerà la parità di diritti ed opportunità civili sociali e lavorative di cui abbiamo bisogno? Personalmente, non voglio dover scimmiottare un uomo per vedermi riconosciuta uguale come persona.

Considero il concetto del “far tutto da sola” un passaggio talmente fondamentale e fisiologico per essere autonoma ed autosufficiente come persona, da far parte della routine, dell’implicito del quotidiano, non certo una medaglia da appuntarmi sul petto. Per dimostrare che sa badare a sé stessa, una donna non deve trasformarsi in un uomo; parallelamente, non credo che essere emancipata significhi far propri certi atteggiamenti marcatamente maschilisti (che va detto, non appartengono al genere maschile tout court). Penso che, in quanto persone, abbiamo diritto ad uguali opportunità, ma sono convinta che la complementarietà, nei rapporti, sia un tesoro da proteggere. Credo che donne e uomini non debbano aver paura di chiedere aiuto all’altro/a, perché farlo non è segno di debolezza. E soprattutto, perché una società che rispetti donne e uomini fa bene ad entrambi.Pillow-Talk_Doris-Day_red-hat-top1

4 responses to “Quando la fidanzata d’America imbracciò il piede di porco”

  1. Ci piace.

  2. Veramente notevole, grazie Francesca di avermi fatto conoscere questa artista decisamente particolare.

  3. Non l’avevo mai sentita nominare, ho fatto anche una ricerca sul web. Davvero originale.

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