In che modo ci trasforma il tempo che attraversiamo? Quanti cambiamenti possono susseguirsi in un anno? In Another year (2010), del regista inglese Mike Leigh, assistiamo allo scorrere della vita di un gruppo di persone che ruota intorno alla solida e saggia coppia formata dalla psicologa Gerri (Ruth Sheen) e dall’ingegnere biologo Tom (Jim Broadbent).
Primavera, estate, autunno, inverno: quattro istantanee, quattro frammenti di quotidianità attraverso cui viene colta ciascuna delle umanità legata ai due, a partire dal figlio Joe (Oliver Maltman), un trentenne che sta cercando il suo posto nel mondo, passando per Ronnie (David Bradley), il taciturno fratello di Tom, e Mary (Lesley Manville), collega di Gerri e amica di vecchia data della famiglia. Dodici mesi che racchiudono i colori più disparati: gioie inattese, lutti familiari … e rimpianti più tossici del veleno. Gli eventi fluiscono portando nuovi inizi, tensioni sotterranee, o facendo giungere al punto di rottura dinamiche ormai sclerotizzate, ma su tutto, ciò che resta immutato è l’atteggiamento con cui Tom e Gerri affrontano la vita, momento per momento. Davanti al figlio che presenta loro la compagna, o in presenza di una una situazione al confine tra imbarazzo e disperazione, la loro reazione è sempre all’insegna di un bonario distacco. Niente incrina il loro equilibrio, nessun accadimento, per quanto importante o grave, riesce a scalfire il loro microcosmo fatto di affetti, certezze e piccoli piaceri, tra cui l’amorevole cura dell’orto. Finchè l’ultima istantanea chiude un ciclo, suggerendo la presenza di “semi” nuovi sotto terra, la cui sorte sarà chiara solo dopo che un nuovo tempo si sarà dipanato.
Due volte Palma d’Oro (nel ’94 per Naked e nel ’96 per Segreti e bugie), Leigh confeziona un ulteriore capitolo della sua peculiare “commedia umana”, in cui le storie e gli attori si confondono con la vita di tutti i giorni. Il film ha incassato numerose recensioni positive; qualcuno, ad esempio, ha rilevato che «da quel grande esploratore delle relazioni umane che è, Leigh ci ricorda in questo film che il tempo che scorre su e dentro di noi non può essere controllato ma non va neppure lasciato a se stesso. Siamo noi, ogni giorno, a caricarlo delle nostre aspettative, delle nostre tensioni, del nostro essere vivi. Basta guardarsi intorno e si troverà sempre qualcuno a cui dare e qualcuno da cui ricevere. Basta rinunciare a rinunciare».
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Another year costituisce per il regista l’occasione di affrontare ancora una volta tematiche per lui cruciali, come la solitudine e il piacere della condivisione, la famiglia e il rapporto tra genitori e figli, e il problema dell’età. La pellicola affresca «uno spaccato di precisione cechoviana, impreziosito dall’insinuazione di un dubbio di fondo: che i due protagonisti, spugne assorbenti degli altrui dolori, ne ricavino un sottilissimo autocompiacimento. Sensazione che trova, se vogliamo, un presagio meteorologico in un weekend primaverile particolarmente piovoso in apertura e, soprattutto, la deflagrazione ultima in un raggelato inverno senza neve che inizia, non a caso, lontano dal comfort del nido d’amore dei due coniugi e che chiude il film palesando le contraddizioni di una famiglia (allargata) tutt’altro che compatta, che ha allevato anche una disturbante e disturbata pecora nera. Il tutto raccontato senza facili scorciatoie né convenzionali picchi drammatici, con una mirabile modulazione di concitazione e quiete (all’interno di una messinscena priva di azione), di sorrisi e di bronci, di tensioni e distensioni, di sguardi obliqui e complesse strategie relazionali. E una rara ambiguità che contribuisce a farne un magistrale capo d’opera, lontanissimo da mode effimere, ma al contrario estremamente classico».
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E il filo rosso che lega le recensioni del film ai commenti del pubblico sembra essere proprio il tema dell’ambiguità, in quanto, soprattutto alcuni personaggi nonché le dinamiche che li legano, si prestano a molteplici, contrapposte, chiavi di lettura. Qual è il confine tra solidarietà sincera e buonismo, tra dolore viscerale e vittimismo? La felicità dovrebbe rendere chi la prova più empatico e permeabile alla sofferenza altrui? Essere, in un certo senso “emarginati”, avvicina a chi è accomunato dalla stessa sorte o, al contrario, esaspera l’egoistica chiusura, l’arroccamento nella propria, personale situazione, ritenuta, erroneamente, unica nel proprio genere e profondità?
Confesso che alcuni personaggi del film mi hanno lasciato addosso un marcato senso di estraneità mista a fastidio, altri mi sono apparsi altrettanto lunari ma – forse – un po’ meno indecifrabili. Dopo aver letto i commenti di altri utenti a proposito del film, mi ha colpita registrare la distanza siderale tra la mia percezione della storia e quella di altri, come se avessimo visto due film differenti. Proprio questo rende Another year intrigante e stimolante, ottimo per chi vuole rimescolare un po’ quelle che ritiene essere le domande cruciali dell’esistenza. Un modo, questo, per tenere a mente che i rapporti umani sono principalmente una miscela di sensazioni e moventi tanto differenti quanto – talvolta – sfumati, il che rende impossibile ( e forse anche inutile) tentare di (sovra)interpretarli. La sola cosa da fare è viverli, tentando di attraversarli nel modo più “fertile” possibile.
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