Dicono che i genitori non si scelgono. Il che è vero, ma attiene ad un piano prettamente razionale. Si potrebbe addirittura definirla una tautologia. D’altra parte, un figlio non chiede di nascere quindi non dovrebbe mai trovarsi nella condizione di maledirsi per essere venuto al mondo. Eppure, spesso la vittima è portata a colpevolizzarsi: il dramma diventa così una matrioska.
Nonostante i suoi – presunti – 12 anni, Zain ha la pervicacia e la forza di sottrarsi al perverso meccanismo. Si ribella sistematicamente all’animalesca condizione a cui i suoi genitori costringono lui ed i suoi fratelli e sorelle. Sente, sa, che non c’è nulla di normale nell’impossibilità di conoscere la propria data di nascita, nell’incatenare un bambino poco più che neonato, o nelle attenzioni di un adulto verso una bambina che ha appena avuto la sua prima mestruazione.

È nella periferia squallida e desolata di Beirut (Libano) che Nadine Labaki ambienta la storia di Zain e del microcosmo di piccole e grandi umanità con cui viene a contatto. Il titolo del film lascia poco spazio a dubbi: Cafarnao – Caos e miracoli: la tradizione cristiana narra che Cristo abbia compiuto i suoi prodigi proprio nel villaggio della Galilea chiamato Caphernaum.
Anche Zain, a suo modo, ogni giorno fa un miracolo. Sceglie consapevolmente, andando in direzione ostinata e contraria, di restare umano e paga un prezzo altissimo: rinunciare al diritto di vivere l’infanzia, con tutto quello che essa comporta. A partire da un sorriso lieve, spensierato e intriso di fiducia, verso il domani, verso le cose, verso le persone…

Il mondo degli “adulti” rende vana la cura ed il senso di protezione con cui Zain vuole evitare che la sorellina Sahar perda troppo presto l’innocenza. Così, decide di mettersi in cammino, e ricerca inconsapevolmente una famiglia che possa essere degna di questo nome al di là dei vincoli (o forse sarebbe meglio chiamarli catene?) di sangue.
Cafarnao – Caos e miracoli: sentirsi bambini (e figli) anche se in una baracca
L’incontro con Rahil, giovane profuga etiope costretta a nascondere il figlio Yonas mentre lavora in una luna park, regala a Zain un nuovo inizio di cui, in parte, conosce già il sapore. Per la prima volta c’è una mamma che gli fa il bagno e prepara da mangiare mentre lui, quasi naturalmente, assume il ruolo del fratello maggiore del piccolo.

Tuttavia, anche la nuova famiglia di Zain cova un dramma. È quello di chi, per sopravvivere, è costretto a fare meno rumore possibile. A rendersi invisibile perché la propria identità è un problema. E per assumerne una fittizia non basta pagare una cifra esorbitante. Bisogna anche piegarsi a inenarrabili soprusi e umiliazioni.
“Yonas è morto ancora prima di nascere. Perfino una bottiglia di ketchup ha un nome ed una data di produzione”
Non stupisce, quindi, che in un mondo al contrario, ma che purtroppo esiste, una frase del genere possa essere pronunciata con disinvoltura mista a senso di impunità.

Quando ti tolgono anche l’ultimo brandello di affetti, non hai più nulla da perdere
Un giorno, all’improvviso, Rahil sparisce. Ancora una volta Zain prende su di sé il ruolo di capofamiglia.Si arrabatta per sfamare Yonas, tenta di rintracciare la donna…finché l’unica soluzione sembra essere pagare qualcuno per uscire dal Paese e raggiungere la Scandinavia.
Per farlo, però, non “basta” separarsi da Yonas. È necessario recuperare un qualche documento d’identità da casa dei suoi genitori; l’incontro con loro riapre una vecchia ferita e ne causa una nuova, ancora più profonda.
“Io vivo all’inferno, e mi sto arrostendo come il pollo che muoio dalla voglia di mangiare”
Zain viene condannato a cinque anni di carcere, ma neanche questo lo priva della voglia di combattere. Anzi, gli dà la spinta per intraprendere la battaglia (legale) forse più lacerante in assoluta: quella contro i suoi genitori, rei di procreare senza alcun criterio, quasi compulsivamente.

C’è un ennesimo e lungo tunnel che attende Zain? O è arrivato finalmente il momento di riavere quello a cui, in quanto bambino, ha diritto, oltre a ciò che più desidera?
Cafarnao – Caos e miracoli: “se la sofferenza vi ha resi cattivi, l’avete sprecata”
Personalmente credo che si possa riassumere con questa frase il messaggio centrale del film di Nadine Labaki. Qualcuno ha sostenuto che la regista, con Cafarnao, abbia dato all’Occidente ciò che voleva: vale a dire, qualcosa per cui sentirsi in colpa e con cui, sbrigativamente e sommariamente, ripulirsi la coscienza.
Non sono d’accordo. Nel racconto della storia di Zain non ho trovato autocompiacimento, né ipocrisia o forzature, e tantomeno pietismo appiccicoso.

Negli occhi di Zain Al Rafeea, che interpreta il bambino, ho letto l’autentica fragilità di chi, pur respirando aria e disperazione, non rinuncia a donare empatia e solidarietà a chi vive il suo stesso inferno, se non peggiore.
Nonostante gli innumerevoli “calci” che la vita gli ha già inferto, Zain ha ancora voglia e slancio per fare le “carezze” a chi percepisce particolarmente vulnerabile ed in balia degli eventi (o degli adulti, per l’esattezza).
In Cafarnao – Caos e miracoli non c’è una distesa indistinta di violenza, crudeltà e ingiustizie. Ci sono momenti di pura grazia, distillati di amore che dischiudono un sorriso, che svelano qualcosa di buffo o tenero. Perché questa è la vita, un intreccio a volte indissolubile di sensazioni e accenti contrastanti.
Il male c’è. È palpabile, talvolta in agguato dietro l’angolo. Ma l’ultima parola spetta sempre a noi. A qualunque latitudine, siamo noi a decidere se abbracciarlo anzi, imbracciarlo, oppure no.
Qui il trailer del film
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